Il prezzo del vino appartiene al mercato

bicchiererosa_240

Scusate, ma certe volte faccio fatica a capirli i vignaioli. Talvolta guardano al mondo del vino come se i suoi confini fossero un paio di metri più in là della loro vigna. La visione è romantica, certo, ma inverosimile, purtroppo. Il mondo è grande, e di là delle colonne di Gibilterra magari si scopre che ci sono le Indie, che poi qualcuno chiamerà Americhe.
Dico così perché qualche settimana fa ho letto su Facebook un post di un vignaiolo che diceva, grosso modo, che non ci può essere redditività per chi coltiva la vigna finché non si farà un tavolo dove i piccoli produttori contino come i grossi imbottigliatori nella decisione del prezzo dei vini delle varie denominazioni. Mi sono permesso di dirgli che quanto meno andava sentito il parere di una terza parte, quella dei compratori. E per compratori non intendo i consumatori finali, che sono la quarta parte semmai. Per compratori intendo i grossi buyer nazionali e internazionali. Non è possibile pensare di “fissare” i prezzi dei vini senza fare i conti con loro. Perché una delle regole più semplici – e spesso più dimenticate – dell’economia di mercato è quella che dice che il prezzo di un bene nasce dall’incrocio fra la domanda e l’offerta. E la domanda, nel mondo del vino, è prevalentemente quella dei buyer della grande distribuzione, nelle sue varie forme.
Giusto per capire, faccio un esempio, semplificando al massimo.
Mettiamo che ci sia una doc che produce annualmente (uso cifre tonde per praticità) intorno ai 100 mila ettolitri di vino. Di questi 100 mila ettolitri, la metà è acquistata da cinque grandi catene della distribuzione organizzata in giro per il mondo (in realtà, spesso si arriva anche all’80 per cento). Mettiamo che ciascuna delle cinque catene compri 10 mila ettolitri di vino, che corrispondo grosso modo a 1 milione e 300 mila bottiglie, un numero assolutamente verosimile per un grosso distributore internazionale. Mettiamo anche che ci sia perfetto equilibrio fra domanda e offerta dei vini di quella denominazione, ossia che le vendite siano perfettamente uguali alla produzione. Mettiamo infine che il prezzo di quel vino sia di 2 euro al litro (i grossi contratti non si fanno in base al costo a bottiglia).
Bene. Mettiamo adesso che i piccoli vignaioli ritengano che, per avere piena soddisfazione del loro lavoro, il vino si debba vendere non già a 2 euro, bensì a 2,50 euro e che abbiano “politicamente” tale voce in capitolo da imporre agli imbottigliatori quell’aumento del 25%.
Gli imbottigliatori vanno dal cinque grandi acquirenti e dicono che il prezzo non è più 2 euro al litro, bensì 2,50 euro al litro. Quattro buyer accettano, ma uno dice no. È così convinto nel dire il suo no, che decide di togliere quel vino dai suoi listini, sostituendolo con un’altra denominazione (il mondo è pieno di vino). Il risultato apparentemente è comunque buono: la gran parte del vino verrà venduta a 2,50 euro invece che a 2 euro. Invece no, invece è un disastro.
È un disastro perché non c’è più equilibrio fra domanda e offerta, perché la produzione è pari a 100 mila ettolitri, ma restano 10 mila ettolitri invenduti, quelli dell’acquirente che non ha rinnovato il contratto. A questo punto, gli altri quattro grandi acquirenti non ci stanno: perché mai dovrebbero pagare il vino con quell’aumento, se sul mercato c’è una maggiore disponibilità di prodotto rispetto a prima, stanti quei 10 mila ettolitri invenduti? Dunque, gli altri quattro o pagano, ma si preparano alla mossa successiva, oppure revocano il contratto, pretendendo prezzi inferiori.
Se revocano il contratto anche loro sono cavoli amari: un sacco di vino resta invenduto. Ma mettiamo che invece paghino. L’annata comunque si chiude, per la denominazione, con il 10% di invenduto, e la nuova vendemmia aggiungerà un altro 10% di invenduto (il vino del contratto “saltato”). Ma – cavolo – 20 mila ettolitri invenduti sono pari al 10% dell’intera denominazione!
A quel punto i quattro grandi buyer che comunque avevano confermato l’acquisto l’anno prima, per riacquistare il vino di nuovo pretenderanno uno sconto molto pesante, perché da un lato oggettivamente c’è un surplus di produzione, e dall’altro lato hanno la consapevolezza di aver pagato l’anno prima un prezzo più alto per un vino che si è venduto di meno. E allora il prezzo scenderà in picchiata, senza freni, sotto la minaccia del de-listing (dell’eliminazione dal listino) da parte dei quattro grossi acquirenti rimasti. E scenderà quasi certamente sotto i 2 euro di prima dell’aumento deciso unilateralmente dai produttori.